Genio e sregolatezza – Sandor Kocsis

2 Settembre 2014

Sandor, gigante danubiano. Sandor, e la speranza che l’Ungheria potesse essere una cosa diversa rispetto alla fottuta cortina di ferro. Sandor, e l’illusione che anche attraverso il calcio sopraffino quel muro potesse sembrare meno spesso, quei carrarmati con la stella rossa meno spietati.

Sandor Kocsis, uno che giocava a pallone come solo in paradiso. Insieme a lui, nella favolosa Honved, suonavano geni come Puskas e Czibor e Bozsik. E in nazionale c’era pure Hidegkuti, il centravanti che non era centravanti.

E Kocsis? Un bestione che di testa sparava cannonate, implacabile già alle Olimpiadi finlandesi e poi a quel mondiale svizzero del ’54, con i crucchi dopati che fecero il colpo grosso in finale. Poi, quando a Budapest arrivò l’armata rossa, la popolazione insorse – avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest, studenti braccianti operai, il sole non sorge più ad est – e Sandor se ne andò. Esule come i suoi compagni di quella Aranycsapat che incantò il mondo. Finì al Barcellona, dove divenne un monumento: cross di Suarez, capoccione di Sandor e gol.

Allenatore, Helenio Herrera. Una vita piena di gol e di soldi, nell’occidente senza comunismo, fino a quel giorno d’estate 1979, quando gli diagnosticarono il male incurabile. Lui, che aveva preso di testa tutta la sua vita; lui, sopravvissuto al Patto di Varsavia. Quel giorno di luglio, Kocsis decise di fare l’ultimo salto, da una finestra dell’ospedale. Un volo senza atterraggio, è ancora lì, sospeso in cielo, a cercare la palla buona da spedire in rete.

Andrea Arena

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