Bradley, ma bisogna spegnere questa cazzo di canzone degli Oasis. Bradley, io mi ricordo a Londra vent’anni fa, in certi pub di periferia, dove all’ingresso ti avvertivano di non entrare con addosso i colori delle squadre di calcio o con nell’ugola le canzoni del brit-pop.
Giusto per evitare risse, guys, specie quando il tasso alcolico diventava troppo alto: non vorremmo mica che un fan dei Blur finisca accoltellato da uno dei Verve, no, no no. Tu eri uno di noi, Bradley Wiggins, nella vecchia e gloriosa Inghilterra: basette, sete perenne, una certa predisposizione ad attaccare bottone con qualsiasi pischella nel raggio di dieci centimetri.
E pure per scaldare i pugni. Ma nessuno sapeva che dentro di te c’era un campione. Un ragazzo della Londra povera – caseggiato di mattoni, stranieri tutt’intorno, biglietto del tube troppo caro per scappare – che però sapeva correre. In pista, con le medaglie e la gloria del Paese, e poi anche per le strade, per esempio quelle di Francia, la vecchia cugina oltre il Canale, così bella e romantica per i ricchi che ci vanno in vacanza, così faticosa per chi pedala inseguendo un sogno.
Il Tour, fuck. Quel giorno, a Parigi, con la maglia gialla, guardavi avanti, mentre intorno a te c’era il mondo. E pedalavi, pedalavi, come hai sempre fatto anche nel ventre della balena della pista. Arrivo, vinco, e mi faccio una buona pinta. Che si fotta la regina, mica mi spremo per lei. Oh yeah.
Andrea Arena