La testa alta, la classe sopraffina, l’immagine da dio nordico sceso tra i mortali per convertirli al bel calcio, quello dove più del risultato contano le geometrie, la perfezione del gesto.
Dennis Nicolas Bergkamp era la risposta dell’Inter agli olandesi del Milan, anche se quando arrivò a Milano – estate 1993 – i tulipani rossoneri già stavano sfiorendo, massacrati dagli italici difensori e forse pure dai vizi del jet set. Bergkamp no, lui sembrava insensibile alle tentazioni, leggero come un airone quando planava in campo, sempre molto attento a non spremersi i muscoli e a non rovinarsi la zazzera bionda.
Con lui c’era lo scudiero Jonk, lento come un bradipo, dotato di una castagna micidiale e destinato a fare il lavoro sporco per conto del suo Don Chischiotte. Diciotto miliardi, costò Bergkamp, per un fallimento memorabile – chi se lo scorda di quella punizione dal limite dell’area calciata in fallo laterale in un Roma-Inter all’Olimpico – e le prese per il culo della Gialappa’s, di Aldo, Giovanni e Giacomo, di Gino e Michele e mancava solo Sbirulino.
Si diceva che l’olandese avesse paura di volare, e perciò viaggiava solo in macchina, o in treno, o in nave, anche per le trasferte più lunghe. Ma in realtà riteneva soltanto blasfemo che un uomo potesse volare in cielo senza neanche essere un dio, come lui.
Andrea Arena