Lo stadio dei ricordi. È questo il Flaminio di Roma per gli appassionati italiani di rugby. Dodici anni di Sei Nazioni, un privilegio agognato e conquistato grazie ai successi della Nazionale di fine secolo scorso. Anni ruggenti, spensierati, di gente che ci credeva davvero, nel miracolo ovale. Un popolo al seguito, sognando di costruire una tradizione anche qui, come lassù nelle isole britanniche, o magari Oltralpe. Perché nel rugby la tradizione è tutto.
E la cosa proseguì, se non a suon di vittorie almeno in termini di partecipazione. Tanto che il Flaminio, 25.000 posti scarsi portati a 32.000 con ardite curve metalliche supplementari nel periodo di maggior popolarità, non bastò più: dal 2012 tutti all’Olimpico. Una passeggiata, dal punto di vista della distanza. Un abisso, come ambiente: più grande, più accogliente, più tutto. Ma forse non più caloroso, con quegli spalti così distanti dal rettangolo verde.
Le memorie più belle, almeno finora, sono rimaste così dall’altra parte del Tevere. Perché, fatta eccezione il buon Sei Nazioni 2012 (successo con la Scozia e miracolo sfiorato con l’Inghilterra sotto la neve) e l’ottimo 2013 (doppia vittoria con Francia e Irlanda, probabilmente il miglior torneo disputato dagli azzurri), negli anni successivi l’Italia ha cominciato a perdere di brutto. Tanto da far sembrare quelli del Flaminio una sorta di triste “si stava meglio quando si stava peggio“.
Flaminio, la casa dei ricordi
Il Flaminio, oggi, è un cadavere. Da quando il grande rugby se n’è andato, il gioiello di Pierluigi Nervi – sorto per i Giochi Olimpici del 1960, l’anno a cui è praticamente rimasta Roma in termini di strutture sportive – è finito nel più completo abbandono. E non si vedono soluzioni concrete all’orizzonte per far rinascere l’impianto, nonostante quella zona, con gli “scarabei” di Renzo Piano e il MAXXI di Zaha Hadid, oltre al palazzetto dello sport dello stesso Nervi finalmente interessato da una riqualificazione, non sia affatto male.
Osservando da fuori il Flaminio silenzioso, sembra ancora di sentir salire il boato che salutò l’incredibile vittoria al debutto nel Sei Nazioni. 5 febbraio 2000, 34-20 alla Scozia, un immenso Diego Dominguez e una strana maglia bianca e blu con una fascia tricolore indossata dall’Italia. Quella è e sarà per sempre una data storica per lo sport italiano, non solo per il rugby: l’ultima squadra ad essere ammessa a questo torneo così elitario, che si gioca dal 1883, era stata la Francia nel 1910, novant’anni prima.
Dopo l’ebbrezza di quell’esordio, arrivò ogni tanto qualche altro successo confortante, in mezzo alle ormai famose (o famigerate) “sconfitte onorevoli” e ai tracolli totali di fronte ad avversari troppo forti. Come le vittorie sulla Scozia, che invece negli ultimi tempi ci sembra diventata inarrivabile, o sul Galles, che un paio di volte siamo riusciti a far fuori. Inghilterra mai, Irlanda solo all’Olimpico nel 2013, come accennato. E la Francia?
Italia-Francia 2021, l’impresa
Detto fatto. 12 marzo 2011, un caldo sole primaverile già splende su Roma. È l’ultima partita del Sei Nazioni che l’Italia giocherà al Flaminio, ospite la Francia che non battiamo da quattordici anni, da quel test match di Grenoble che fu una delle tappe fondamentali per l’ammissione degli azzurri al torneo. Il “Terzo Tempo Village” allestito nel parcheggio è, come sempre, pieno di gente. Tra birre, musica, gadget e goliardia, l’atmosfera è di pura festa nel pieno spirito del rugby.
Man mano che si avvicina l’orario d’inizio, si formano le solite code agli angusti ingressi dello stadio e le gradinate si riempiono fino in cima. Il Flaminio è un catino capace di sprigionare il tipico, immenso calore di un piccolo stadio colmo di passione: il grido della folla che percorre gli spalti, il fremito metallico delle curve aggiuntive installate per assecondare la grande richiesta di biglietti (le architetture di Nervi non si possono modificare, sono opere d’arte e hanno vincoli).
Nessuno si aspetta di rivaleggiare con la Francia, che è in corsa per vincere il torneo. La partita è invece equilibrata fino oltre l’intervallo, ma con meno di mezz’ora da giocare i transalpini si portano sul 6-18. L’Italia però reagisce: si riavvicina con una meta di Masi, trasformata da Mirco Bergamasco. Poi la Francia si distrae, o non ne ha più, non lo sapremo mai. Arrivano tre calci piazzati per l’Italia e il biondo riccio che fa impazzire le tifose non ne sbaglia neanche uno. Azzurri avanti 22-21 e tutti a difendersi dall’assedio finale: non c’è tempo, vince l’Italia e viene giù il Flaminio. Un boato la prima volta con la Scozia, un boato l’ultima con la Francia: un cerchio che si chiude, prima di lasciare spazio al vuoto e alla tristezza che scendono lentamente sul secondo stadio della capitale.
Foto di David Guerrini