“Un ragazzo molto forte”, un racconto di Mauro Evangelisti

20 Ottobre 2015

Sapevo che sarebbe successo, che sarebbe arrivato questo momento come un secchio di acqua gelata lanciato da un destino mattacchione. E che avrei rivisto mia madre, all’improvviso, nell’attimo più inopportuno di tutta la mia vita. Ed è andata esattamente così.

Due agenti mi stavano inseguendo, mi hanno visto violentare una ragazza in un parco, ho avuto appena il tempo di finire e scappare. Ho saltato una staccionata, fatto cadere un ciclista, mi sono perso nel buio della città sperando che l’oscurità inghiottisse i due poliziotti. Ma loro erano ancora vicini, testardi, sono finito in un vicolo e ho compreso che non c’era via d’uscita, in fondo solo un muro su cui qualcuno aveva scritto con la vernice «prima o poi si muore, tranquilli».

Udivo le urla dei due agenti – «fermati» – divenire più distinte. Ho visto una finestra aperta, mi sono arrampicato, sono entrato, c’era un salotto e una donna con un telecomando in mano seduta su una poltrona. Era mia madre. Non ci parlavamo da quindici anni. «Come sei arrivato qui?» mi ha chiesto, come se fosse la cosa più normale al mondo riprendere da quella domanda. Le ho mentito, perché altrimenti non mi avrebbe aiutato e io non voglio finire in prigione. Ho combattuto con lo stupore nel vederla, in fondo solo un po’ più rotonda, con quei morbidi capelli biondi che mi hanno sempre ipnotizzato. «Sto scappando, sono entrato qui per caso, non sapevo che fosse casa tua. Mi stanno inseguendo due poliziotti corrotti, ce l’hanno con me perché li ho denunciati e ora mi vogliono accusare di non so quale follia. Nascondimi». «Saliamo di sopra» ha detto, sospirando.

Ha spento il televisore. Ora sono seduto sul suo letto, sto tremando, perché ho paura che i due agenti testardi possano trovarmi e arrestarmi. E perché ho rivisto mia madre. Forse l’ottanta per cento del tremore è causato da lei. Mia madre mi porta una tazza di caffè e sorride. «Certo, che è uno strano modo di rivederci. Io non ho ancora capito perché tu te ne sia andato. Ti ho cercato a lungo, poi ho capito che non potevo costringerti a tornare». Suonano il campanello. Ho vissuto vent’anni della mia vita con mia madre e per diciannove ho dormito nel suo letto.

No, non è mai successo niente di anormale, semplicemente ci sembrava naturale dormire insieme. In fondo, quando sono nato, mia madre aveva solo diciotto anni e quando sono cresciuto lei sembrava mia sorella, a volte ci scambiavano per fidanzati. Le cose sono andate bene, per diciannove anni. Eravamo solo lei e io. Io le parlavo a lungo della scuola e della mia passione per i numeri. Lei mi spiegava come era andato il lavoro in pasticceria, mi chiedeva di assaggiare i nuovi dolci che aveva ideato. Io conducevo la vita di un qualsiasi bambino prima e di un qualsiasi adolescente dopo, ero bravo a scuola, avevo molti amici, andavo a catechismo, giocavo a pallone, a quindici anni ho avuto la prima morosa, «per forza hai successo con le ragazze – diceva mia madre – non lo vedi come sei bello?».

Non ho mai sentito la mancanza di un padre che non ho mai conosciuto. Alla sera tornavo sempre a casa, parlavamo a lungo, dormivamo insieme. Un giorno l’equilibrio si è rotto. Prima una sua frase mi ha turbato, ha iniziato a dirmi «sei la dimostrazione che la mia vita ha un senso». Mi sono chiesto: mi vuole bene o ama semplicemente l’idea di sentirsi realizzata grazie a me? Poi, ha conosciuto Marino: era l’elettricista che aveva riparato il forno della pasticceria. Andavano al cinema insieme, però lei non mi parlava mai di lui. Finché un giorno mi ha telefonato: «Questa notte dormo da Marino, non mi aspettare». Non era mai successo che non dormissi con mia madre. Le ho risposto: «Va bene, non c’è problema». Quando la telefonata è terminata ho deciso che non le avrei più parlato. Il giorno dopo ci siamo rivisti e non le ho rivolto la parola. «Ma sei impazzito?» mi ha chiesto. Una settimana dopo, mentre era in pasticceria, sono andato via. Per sempre.

Ora siamo di nuovo nel salotto. I due poliziotti ci guardano, è arrivata anche un’agente donna in rinforzo. Mia madre: «State mentendo, mio figlio non può avere violentato quella ragazza, è rimasto qui con me per tutto il giorno». «Signora, ci dispiace, suo figlio deve seguirci in commissariato». Io resto in silenzio, ma il mio sguardo finisce su una foto su un mobile che non avevo notato: mia madre e Marino si baciano sotto la Tour Eiffel. «Non potete portare via mio figlio, è l’unica cosa veramente importante che ho in questa vita» dice mia madre. Io le salto addosso, la scaravento a terra, le apro le gambe, abbasso la cerniera, lo tiro fuori, voglio violentarla. I poliziotti intervengono, mi tirano via, ma io sono una furia, quando sembra che l’abbiano avuta vinta, io con i pantaloni ancora aperti mi libero e salto addosso alla poliziotta, provo a violentare anche lei, ma mi molla un calcio alla pancia e cado a terra. Mia madre mi guarda, sorride, e spiega ai poliziotti: «Avete visto? Avete faticato a bloccarlo, è sempre stato un ragazzo molto forte».

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