“Non smetterò di amarti mai”, un racconto di Mauro Evangelisti

1 Ottobre 2015

Quando l’enorme edificio a forma di sfera si svuotava dei 1500 dipendenti, tre ore dopo l’orario normale perché tutti si sentivano drammaticamente felici di lavorare nella multinazionale che dominava il mondo da una piccola città della California, Mirco iniziava il gioco.

No, prima chiamava la moglie, chiedeva come stavano i bambini, lei si lamentava del messicano che puliva la piscina e gli parlava dell’associazione che aiuta i cani abbandonati, di cui era la presidente, ma che lui le aveva creato, con il suo imbarazzante salario da amministratore delegato più pagato al mondo. La compagnia, in cui era entrato come semplice stagista arrivato dall’Italia, gli era riconoscente. Da quando Mirco a 35 anni era diventato AD, si era trasformata in un impero.

Dall’ufficio al centro della sfera scrutava gli open space che lo circondavano, ma in cui nessuno poteva vederlo, iniziava il gioco: andava su Facebook, una compagnia nemica, e digitava i nomi dei compagni di scuola di trent’anni prima. Inseguiva le tracce delle loro vite e assaporava il piacere di constatare i loro fallimenti o gli inutili successi nell’inutile centro di provincia. La migliore della classe, con tutti dieci in greco, ora era un’insegnante in un liceo e pubblicava le foto con il figlio grassoccio di una vacanza in Abruzzo che definiva indimenticabile; Fede – Federico -, votato ogni anno come il più bello della scuola, ora era un signore di mezza età, aveva perso i capelli e guadagnato chili; Alberto, l’idolo delle insegnanti di italiano, lavorava nel giornale locale e passava il tempo a scrivere banalità contro il governo.

Mirco, così insignificante al liceo, si era preso una rivincita che non avrebbe mai potuto immaginare nei più coraggiosi sogni di quindicenne. Ma fu proprio guardando il profilo di Alberto che trovò notizie di Annalisa. Il giornalista aveva rilanciato un articolo del quotidiano locale. “Donna dorme in auto con la figlia dopo aver perso il lavoro”. Era lei: nome, cognome ed età corrispondevano e la foto levava ogni dubbio, Annalisa non aveva più lo sguardo sfuggente, la pelle diafana e i capelli biondi arruffati, era una caricatura cadente del suo passato di irresistibile bellezza.

Ma era lei. Era l’unico nome che Mirco, nel gioco sadico, non aveva mai scritto. Era lei ed era una disperata. Mirco si procurò l’indirizzo dell’appartamento che il Comune aveva concesso, provvisoriamente, ad Annalisa e alla bambina dopo l’articolo. In aereo Mirco ripensò alle volte in cui le aveva detto, inutilmente, di amarla. A quell’unica volta che furono vicini a baciarsi, mentre cadeva una pioggia sottile, poi lei era indietreggiata e l’aveva salutato con la mano. «Non smetterò di amarti mai» le aveva gridato. Si era tinto i capelli e aveva prenotato una camera in hotel con un nome falso. L’ultima volta che era tornato nella sua città, prima della morte della madre, il sindaco lo aveva costretto a ricevere un premio dal Comune: era stato orribile.

Si fermò nella piazza principale, i soliti anziani in bici. Ricordò il testo della canzone che aveva scritto allora con Paolo, l’unico amico che sarebbe morto cinque anni dopo in un incidente: «Sei tornato nella piazza, dove eri vivo e avevi una ragazza, sei tornato dai tuoi sogni, così banali coglioni. E vorresti uccider tutti, han rovinato i tuoi ricordi…». «Che schifezza di canzone». Poi andò da Annalisa. Lei, sorpresa, lo fece sedere sul divano e le offrì un bicchiere d’acqua, «non ho altro, scusa». «Tua figlia?». «È a scuola». «Ho letto la tua storia e sono venuto qui…». «Sei matto, dall’America… Giovanni, il mio ex, è scappato chissà dove e non manda soldi. Io lavoravo in un albergo, ma ha chiuso. A 45 anni non è facile trovare un altro lavoro. Sei venuto a dirmi che avrei dovuto mettermi con te? Non voglio il tuo aiuto». «Io non ti voglio aiutare. Io sono venuto a guardarti, grassa e con abiti da pochi euro, e a sorridere. Da miliardario ti puoi permettere certi capricci».

Lei non rispose, lui si alzò e se ne andò. Mise in moto la Mercedes noleggiata e accese la radio. Una vecchia canzone di Luca Carboni, dei tempi del bacio non dato. «Non sei andata via, non sei andata via, non è colpa mia, è che non va via… Non smetterò di amarti mai, non smetterò di perderti, di cercarti all’improvviso». «Che schifo di canzone». Pianse. Tornò indietro e risalì da Annalisa. «Cosa vuoi ancora?». «Ti ricordi quando tu stavi per baciarmi e poi te andasti? Io ti urlai: “Non smetterò di amarti mai”. Era vero, non mentivo. Ti manderò un milione di euro, voglio che tu sia felice. Non ci vedremo mai più, ti chiedo solo una cosa: dammi il bacio che non mi desti». «Ma hai bevuto?». «Sai che non mento mai».

Annalisa pensò alla figlia, alla vergogna dell’articolo, con quei soldi avrebbe potuto cambiare città, ricostruire una vita. E si sentì riscaldata da quel gesto di amore di Mirco, forse era solo una vendetta perversa, ma non le importò. Chiuse la porta, appoggiò una mano sul collo di Mirco, avvicinò la sua bocca. Chiunque avrebbe potuto vederlo, non c’erano più quarantacinquenni che si baciavano, ma i due ragazzi di tanti anni prima. La pioggia sottile.

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