Prima, gli sfottò: voi cafoni di campagna, noi ricchi e nobili; il vostro vino fa schifo, nun se po’ proprio beve.
Poi i cori velenosi: figli di padre schiavo e mamma liberta; vigliacchi, sapete solo scappare a gambali levati. Intanto, nell’imponente arena dell’anfiteatro, i gladii fendevano l’aria, gli scudi e le corazze sferragliavano, i guerrieri combattevano per vivere o morire.
Pompei, anno 59 dopo Cristo, vent’anni prima del grande fuoco del Vesuvio: il senatore Livineo Regolo aveva organizzato giochi grandiosi. Sul campo, i migliori gladiatori, provenienti da ogni parte dell’Impero. Sugli spalti, i tifosi pompeiani, espressione di una città florida, economicamente e culturalmente, e i tifosi che erano giunti da Nocera, dalla campagna, oltre un giorno di cammino per tifare i loro idoli.
Agricoltori, quelli di Nocera, ma anche fieri e coraggiosi. Dalle parole si passò ai fatti, e poi ai sassi e alle lame: ci furono morti e feriti nel primo grande tumulto da stadio che la storia ricordi. L’imperatore Nerone ordinò la chiusura dell’anfiteatro per dieci anni, e l’exilium per chi aveva organizzato e sobillato la rivolta. Diceva Tacito: là, dove creano il deserto, osano chiamarlo pace.
Andrea Arena