Nel mio lavoro di piercer, genitori che accompagnano i figli mi chiedono “il senso del fare queste cose”, cioè tatuaggi o piercing. La prima cosa che mi viene in mente, pensando al contesto culturale in cui viviamo, è: riappropriarsi del proprio corpo.
La civiltà occidentale, per secoli, è stata dominata da un’etica cristiana che concepiva il corpo come appartenente a Dio: alterarlo era tabù. Esistevano eccezioni al dogma, percepite come forma di devianza: ferite autoindotte per simboleggiare il martirio di Cristo, aristocratici e marinai che si tatuavano in terre esotiche, carcerati e outsider che “segnando” la propria pelle rivendicavano un’individualità negata.
Con l’avvento dell’illuminismo, il tabù continuò tuttavia a perseverare, tanto che studiosi come Cesare Lombroso considerarono queste pratiche una predisposizione alla perdizione fisica e morale. È a metà del ‘900 che si verifica un radicale mutamento etico: dagli anni ‘70 in alcune controculture come quella punk si diffondono pratiche di body mod sempre più provocatorie e sperimentali. Uno scontro evidente tra etica comunitarista e individualista: il corpo è mio e non appartiene a nessun altro.
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