Sei febbraio 1978, Aldo Moro era un uomo libero ancora per poco, e pure libero era Erasmo Iacovone, dio giovane per i tarantini, che mandava al manicomio coi suoi gol. Sembrava l’anno buono, quell’anno, per conquistare una serie A mai vista prima, il Salinella, uno stadio costruito in cento giorni, gonfio d’amore e di speranza. Fino al 6 febbraio, notte boia nel profondo sud, a San Giorgio Ionico, statale Taranto-Lecce. Erasmo c’era andato a vedere il cabaret, ma Oreste Lionello quella sera aveva dato buca.
Si torna a casa, allora, ché sta aspettando una pupa. La Diane che parte a fatica, fari accesi, la strada da imboccare. Ma Erasmo a casa non arrivò mai, la carriera e la vita e i sogni di questo 25enne si disintegrano in mille pezzi su quell’asfalto, spappolati da un’Alfa Gt che schizzava come un missile, lanciata a duecento all’ora per scappare dalle guardie. L’aveva rubata un tale, Marcello Friuli, e questo soltanto per la cronaca.
Iacovone è morto così, nel tacco d’Italia, in una notte d’inverno. Due giorni dopo gli intitolano lo stadio, quindicimila persone al funerale, ma la magia del Taranto si spense col suo giovane bomber, e la serie A non arrivò mai. Sua figlia Maria Rosaria, nata in autunno, non lo conobbe mai. Ma ha capito lo stesso che suo padre, volato in cielo a venticinque anni, era stato e sarà sempre un mito, di quelli veri, di quelli buoni, di quelli per cui vale la pena vivere, e credere ancora nel calcio.
Andrea Arena