Sarà stato l’’88, a Stoccolma. Stefan Edberg era il re di Svezia, e il nostro era soltanto un tennista bolognese pieno di talento e di follia, di racchette spaccate e di scelte sbagliate. Paolo Canè, uno di quei giocatori che fecero degli anni Ottanta del tennis anni memorabili.
In tribuna stampa, per la telecronaca, una massa immensa sudava e pizzicava i bassi della sua voce: Giampiero Galeazzi, altra fetta – però televisiva – di quell’epoca. Accanto, il telecronista svedese: austero, puntiglioso, un professorino come solo se ne possono trovare a una partita di tennis nel Nord Europa. Si gira verso Galeazzi e gli chiede se per favore potrebbe pronunciare “Edberg” come lo dicono loro, cioè “Edberi”. Please, please.
Bisteccone nostro sbuffa, fa finta di non capire, cerca di allungare il passo come facevano gli Abbagnale e Peppiniello in acqua quattro. Ma alla fine, mentre Canè sta incredibilmente dando una lezione al principino Stefan, Giampiero sbrocca: “Io lo chiamo così, ‘Edberi’, se te smetti di chiamare er nostro ‘Cane’. Bicós, perché, ‘cane’ da noi in Italia means dog, significa cane”. Gioco, set, incontro. E un’amatriciana per due.
Andrea Arena