Un metro e novanta. Le gambe grosse e muscolose, come fossero due di quei tronchi che avrebbe spaccato se avesse fatto il boscaiolo. La zazzera bionda, da marine forte e buono, con la consapevolezza di poter campare di prepotenza e la ferma convinzione che non l’avrebbe mai fatto.
Né lassù, in Svezia, dove pescava salmoni e cacciava alci per diletto, né sui campi del Belgio (Malines), dell’Olanda, dell’Inghilterra (Sheffield Wednesday, detti “Le Lame”), né qui da noi, a Bari e Bologna e a Lecce, né tantomeno là da loro, al Marsiglia.
Un metro e novanta, ma arrotolato su una sedia a rotelle. Il cappellino in testa per nascondere lo sfregio della chemio. Le ossa fragili. Il mieloma multiplo che sembra sparire, ma che poi torna, e torna ancora, il bastardo. Fino al 29 ottobre 2014, il capolinea di Klas Ingesson. L’unica battaglia perduta di un un guerriero buono, di un centrocampista esemplare per la potenza e la generosità, mai una colpo proibito, mai una sceneggiata, idolo di tutti, anche di quelli che lo affrontavano, persino di Eugenio Fascetti, l’allenatore di uomini che certe volte, in cuor suo, forse avrebbe preferito anche un po’ di gioco sporco.
Ma Ingesson è stato pulito fino alla fine, fino a quella morte così terribile eppure affrontata con una nobiltà. Vichinga, anzi meglio: scandinava.
Andrea Arena