C’era la guerra, quella guerra sporca perché combattuta tra fratelli. Si sarebbero ammazzati tra di loro se soltanto non ci fosse stata di mezzo l’Europa di quegli anni, gli anni Trenta. E allora, nazisti e fascisti ad appoggiare Francisco Franco, sovietici e comunisti – più qualche fricchettone ante litteram come Hemingway – dalla parte dei repubblicani. Quello che si chiama un gran casino, la Spagna di allora. In tutto questo non era facile giocare a calcio, e giocarlo in modo divino come faceva Ricardo Zamora, il portiere più grande prima dell’era moderna.
Già, all’epoca il pallone era di cuoio marrone, gli estremi indossavano buffi cappelli, e tra i pali bisognava volare. Lui volava, il Divino, nella sua Barcelona e poi a Madrid e a Nizza. Eppure, anche Zamora, il portiere della Nazionale che per prima – al di fuori delle isole britanniche – batté i maestri inglesi; lui, che aveva salvato la Copa del Rey con una parata eccezionale in un indimenticabile Real Madrid-Barcelona (4-3), in quella guerra rischiò di lasciarci le penne. Il fatto è che Zamora non era né carne né pesce: non franchista, non repubblicano.
“Io soy espanyol”, diceva a chi glielo chiedeva. Era nato in Catalogna, e per questo si disse che i fascisti l’avessero ammazzato e buttato in una fossa. Ma girò anche voce che l’avessero ucciso i compagni. Per non sbagliare, i colonnelli lo arrestarono, e lo sbatterono nella galera di Modelo, destinazione patibolo. Si salvò con la fuga, ipnotizzando i carcerieri coi suoi racconti di calcio e parate, così come sul campo ipnotizzava gli avversari.
Andrea Arena