E’ diventato una specie di macchietta. Una caricatura. Un fregno buffo. Da citare qua e là, a casaccio e spesso a sproposito. Persino su Twitter c’è un account che gli ruba il nome e che spara sentenze. Come se tutta la grandezza di Vujadin Boskov potesse essere espressa in 140 caratteri. No, non è più il tempo né il mondo di Boskov.
Dei suoi occhi furbi ma sinceri, dei suoi spigati siberiani (lui e Fantozzi), del suo stile. Un nonno, ecco cos’è stato Vuja per tutti quelli che il calcio lo vivevano come una cosa bella, di famiglia. Il sabato dal barbiere e a giocare la schedina, le domeniche alla radio e poi Novantesimo, e “un secondo tempo di una partita” su Raidue, in differita mentre la mamma preparava la cena. Fottuto romanticismo. Boskov ci stava a pennello in questo quadro qui, lui che aveva girato l’Europa da jugoslavo che la sapeva lunga – maledetti Balcani – e che teneva un piede in Tito e uno in occidente.
La Svizzera, la Spagna, l’Italia. I grandi presidenti sfiorati (come Bernabeu) e quelli conosciuti, da Rozzi che lo volle ad Ascoli a quel signore di Mantovani e persino Ciarrapico e Ferlaino e Gaucci, massì. Lo scudetto, certo, alla Sampdoria. Boskov è morto nel 2014, di quella malattia che cancella tutto, dicono. Speriamo che abbia cancellato anche la parte peggiore dei ricordi: le solite frasi, il rigore che c’è, il cane di Perdomo, il cervo che esce di foresta. Ricordiamoci di Boskov, non di quello che disse. Allora, per fortuna, Twitter non l’avevano ancora inventato.
Andrea Arena