“Il tempo insieme”, un racconto di Mauro Evangelisti

20 Novembre 2015

Era seduto in un bar cubano, nella periferia di Roma, perché quando era giù di morale andava lì a bere un mojito da solo. Il buttafuori, un nero dalla pelata rilucente, rideva mentre tentava di convincere due ragazze a entrare.

Poi si confezionò la scena, inquadratura perfetta: dal rettangolo della porta aperta, solo parzialmente oscurato dal buttafuori, vide una terza ragazza, che ballava alzando le braccia perpendicolari al corpo, su e giù come afferrasse qualcosa nell’aria. In sottofondo una vecchia canzone che parlava di lluvia, di pioggia. Rimase dieci secondi divertito e rapito. Poi lei si voltò, Marco vide gli occhi e capì. Sara, la ragazza che ballava, vide gli occhi di Marco, e capì. Non ebbero dubbi. Marco era naturalmente cinico e disincantato, e ora che aveva 38 anni lo era ancora di più, eppure lo seppe subito: amava quella ragazza, forse sarebbe stato più giusto dire quella donna, era come se la conoscesse da sempre, anche se era la prima volta che la vedeva, come se si fossero cercati per anni.

Anche Sara ebbe subito la stessa certezza, senza esitazione, senza dubbi, come quando vedi un lenzuolo bianco e non devi riflettere molto, è bianco. Marco lasciò i soldi sul tavolo, uscì e senza ipotizzare un rifiuto, disse: «Andiamo in un posto più tranquillo, così possiamo parlare». «Certo». Salutò le amiche e lo seguì. Finirono in una vineria dove c’erano solo altri due tavoli occupati. Parlarono a lungo delle rispettive vite e si accorsero che non avevano spiegazioni su cui dilungarsi, perché era come se davvero si conoscessero da sempre e si rivedessero dopo molto tempo. Dovevano solo dirsi cosa avevano fatto mentre erano stati lontani. Dettagli ininfluenti, ciò che contava è che si erano trovati.

Andarono a casa di lui, fecero l’amore. Il sesso confermò che non c’erano distanze, ma che era naturale che stessero lì a toccarsi e guardarsi. Marco dopo l’orgasmo non si sentì inquieto e desideroso di restare solo, come invece gli succedeva con le molte ragazze che aveva avuto. Sara non si sentì usata come capitava con gli altri uomini che aveva sempre visto, in conclusione, come sconosciuti. Il giorno dopo Sara si trasferì da Marco. Trascorrevano le serate a guardare in tv le serie che amavano, a scherzare sul calcio, a sfidarsi su chi cucinava meglio. Non c’erano sbavature di romanticismo o di passione sessuale, la giusta misura veniva naturale.

Di nuovo: come se si conoscessero da molti anni e non da pochi giorni. Un mese dopo presero le ferie dalle rispettive professioni e partirono per il Giappone. Entrambi lo avevano già visitato, eppure vollero andarci insieme, come per unire i viaggi fatti in precedenza da soli. Passeggiarono tra i templi e i giardini di Kyoto, il rosso accecante delle foglie degli alberi, le case antiche che si specchiano sui laghetti. A Marco venne come un brivido e strinse forte la mano di Sara. Poi si fermarono in un locale e ordinarono del caffè americano. Attorno a loro studenti. Marco: «Ieri ho pensato a quanto sia incredibile che con uno sguardo abbiamo capito di essere importanti l’uno per l’altro, ci siamo riconosciuti». «È una cosa bella, no? Siamo stati fortunati, quella sera io neppure volevo uscire. Se fossi rimasta in casa non ti avrei incontrato». «Sì, all’inizio ho creduto anch’io che siamo stati fortunati. Poi, però, ho pensato: no, al contrario, la nostra è stata come una maledizione, un incantesimo malefico». «Perché non ci siamo incontrati vent’anni fa, vuoi dire, perché abbiamo dovuto aspettare così tanto tempo?». «Lo vedi? Intuisci subito i miei pensieri. Sì, penso che sia stato come in certe fiabe, la maledizione di una strega cattiva, forse ci ha voluto punire perché i “noi due” che si incontrarono a 18 anni erano troppo felici».

Sorrisero, lei avvicinò la tazza di caffè alle labbra, lui le accarezzò i capelli. Sul volo di ritorno Marco litigò con un altro passeggero, perché occupava troppo a lungo il corridoio. Sara non disse nulla, fu infastidita dal linguaggio sgradevole di Marco, ma non si sorprese, come se conoscesse anche quel lato del suo carattere. In aeroporto Sara non si accorse della valigia che stava passando sul nastro, «mi sono distratta, non è che ci pensi tu?» gli disse, sedendosi in un angolo a giocare con lo smartphone. Marco non reagì, anche se era stanco, detestò la pigrizia di Sara, ma non ne fu sorpreso, perché inconsciamente già la conosceva. Sul taxi restarono in silenzio. A casa fecero una doccia e andarono a dormire, parlandosi a monosillabi, concludendo con una constatazione «che stanchezza» che aveva la valenza di una giustificazione.

Prima di addormentarsi, entrambi ripensarono a ciò che si erano detti nella caffetteria di Kyoto, al tempo insieme rubato dal destino che non li aveva fatti conoscere prima: il maleficio. Ma capirono: no, erano stati fortunati a conoscersi solo ora, perché così era stato risparmiato loro il dolore acuto del rapporto che sarebbe comunque terminato, avevano evitato anni inutili. Il giorno dopo Sara tornò a casa sua, non si dissero nulla. Non era necessario.

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