C’era Lucia, che si era sposata troppo presto e a trent’anni era già divorziata. Simona, che invece non aveva mai avuto il coraggio di sposarsi o non aveva mai trovato uno che avesse avuto il coraggio di sposarla. Livia, che lavorava in un’altra sede della casa editrice dove sono editor, con cui ogni tanto andavo al cinema. Anna, una ragazza che mi mandò un suo romanzo, anche se lo rifiutai uscimmo insieme e mi raccontò quanto fosse confusa la sua vita.
Tutte non comprendevano perché a 35 anni io continuassi ad accettare, svogliatamente, inviti a cena, ad aperitivi, al cinema, ma poi non andassi mai oltre, non facessi il passo successivo per entrare nel loro letto o per portarle a casa mia. Mi ronzavano tutte attorno, dubbiose, non innamorate, però incuriosite e attratte dal mio aspetto fisico notevolmente al di sopra della media dei single della mia età. Eppure, è come se con ognuna di loro io avvertissi da subito la fatica di un rapporto, di una relazione, fosse solo di una notte. La necessità di soddisfarle, di abbattere gradualmente i muri dell’intimità, di dovere pensare anche a loro.
Ci ho riflettuto: se fossero state le ragazze di un bordello e me le avessero messe in fila, una per una, sicuramente avrei fatto sesso con ognuna di loro, ma con la libertà di chi sa che dopo quell’ora pagata tutto finisce, non ci si rivede, non si deve parlare, non si devono ascoltare lamentele perché sei venuto troppo presto o troppo tardi. È per questo che da dieci anni per me il sesso era solo quello delle escort. Ormai ero un esperto del settore e non chiamavo mai la stessa. Sapevo decifrare gli annunci dei siti specializzati, capire quale fosse la foto farlocca, quale la ragazza che avrebbe dato più soddisfazione, quale quella che rischiava di trasformarsi in una seccatura.
Così due o tre volte al mese, ne chiamavo una in un hotel lontano dal mio quartiere. Tra il costo delle ragazze e della stanza spendevo in media 800 euro al mese, ma me lo potevo permettere perché la casa dove vivevo era quella che mi avevano lasciato i miei genitori, non amavo viaggiare, andavo in giro con una vecchia Panda e spendevo pochi soldi per i vestiti. Per me il sesso più soddisfacente era quello con una ragazza che non conoscevo, con cui non dovevo parlare, che non avrei rivisto e che ovviamente stava fingendo. Ma a me non interessava il suo piacere, a me interessava il mio piacere. Lo so, era un inno all’egoismo, ma non prevedevo di cambiare.
«Siamo la generazione che odia il possesso, l’esclusiva, siamo la generazione del car-sharing» lessi una volta in un libro che dovevo correggere. Poi un giorno ho chiamato Erica. Nel leggere il suo annuncio, nel decifrare la sua foto con un corpo magro e quasi senza curve, con tette appena accennate, avevo intuito che sarebbe stata portatrice di guai. Ma mi era piaciuto il suo slogan “poche parole, solo sesso”. Si spogliò e quando la vidi nuda, capii che stava succedendo qualcosa. Non era solo il sapore salato della pelle o i tempi perfetti nel gestire il sesso, era il tono della voce, un certo disincanto mescolato a una ingenuità quasi impercettibile. La richiamai il giorno dopo e il giorno dopo ancora. La terza sera, dopo il sesso, lei mi disse: «Ma perché non mi accompagni a mangiare una pizza? Tranquillo, pago io, ma non mi va di andare in pizzeria da sola e a casa ho il frigo vuoto». Ecco, cominciò tutto da lì, non dal sesso, ma dal rituale di una coppia normale in pizzeria. I racconti sulle proprie vite, lei si stava laureando in architettura ma l’università costava e anche l’affitto del suo appartamento. «E poi mi piacciono i bei vestiti, dunque preferisco essere una escort invece di farmi sfruttare a 900 euro al mese come commessa in qualche negozio».
Tre mesi dopo si trasferì da me, cancellò l’annuncio sul sito, trascorreva le giornate a preparare la tesi, mi preparava la cena e facevamo l’amore quasi ogni notte, andavamo al cinema, qualche volta allo stadio a vedere la Roma, una volta insieme a Barcellona perché le serviva del materiale per la tesi su Gaudì. Andava tutto bene e non mi infastidiva il pensiero che fino a pochi mesi prima era una escort. Solo che una notte capii che non mi piaceva più il sesso con lei. Quell’intimità, quel conoscersi nel profondo a cui stavamo arrivando, non faceva per me. Io amavo la superficialità, la distanza che solo una escort poteva darti, il sesso senza coinvolgimenti. Quello mi mancava. Avevo però paura di dirglielo, ero rimasto intrappolato in un rapporto che avevo sempre evitato, non perché avessi paura di restare deluso, ma perché ero terrorizzato dal deludere le persone. Le scrissi un messaggio su Whatsapp e le spiegai tutto. Quando tornai a casa se ne era andata, aveva portato via tutte le sue cose. Tre mesi dopo rividi il suo annuncio sul sito delle escort. La chiamai, ci vedemmo in hotel, facemmo sesso senza parlare, la pagai. Da cinque anni il nostro rapporto è solo questo: io la chiamo, le mi raggiunge in hotel, sesso, soldi, poche frasi. Anche questo è amore.