Chissà che fine ha fatto Roberto Di Matteo, molti si chiedono da anni. L’allenatore italiano, che nel 2012 sorprese il mondo del calcio vincendo la Champions League con il Chelsea da subentrato, dal 2016 non ha più avuto una squadra.
Quel titolo è la sola gemma della sua breve carriera da tecnico, almeno finora. Anzi no, c’è pure la FA Cup, che da quelle parti conta più del campionato, conquistata nello stesso anno e mese. Sempre con il Chelsea, il “suo” Chelsea. Lui che aveva giocato negli elettrici Blues di fine anni ’90. Quelli di Zola e Vialli, di Hughes e Sinclair, allenatore Gullit ancora con le trecce e una birra come sponsor, la Coors.
Giocare a quei ritmi in una squadra inglese, però, qualche controindicazione ce l’ha. Come spezzarsi una gamba, ad esempio. Cosa che succede in un match di Coppa UEFA: scontro con un tizio del San Gallo, formazione della natia Svizzera, triplice frattura. Una roba da dieci interventi chirurgici e addio pallone a poco più di trent’anni, nel 2000. Tutto finito, o forse tutto iniziato.
Roberto Di Matteo: la gavetta e la grande occasione
Roberto Di Matteo è un uomo riservato, ma competitivo e tenace. Una cosa può dire di conoscerla: la gavetta. Nato a Schaffhausen nel 1970, figlio di operai emigrati dall’Abruzzo, da giovane centrocampista si mette in luce nel campionato elvetico. Nel 1993 il grande salto alla Lazio. Che saluta dopo tre anni per giocarsi la carta londinese. E Londra, dove trova moglie, diventa casa sua.
Il prematuro ritiro gli apre altre possibilità. Prima consegue un master in economia, poi a 38 anni l’esordio da allenatore. Anche qui, gavetta: MK Dons, in terza serie. Poi in seconda, al West Bromwich Albion, che porta in Premier League, ma viene esonerato. Nel 2011 l’occasione arriva da casa, cioè dal Chelsea: assistente di André Villas-Boas, una specie di “nuovo Mourinho”.
Succede però che Villas-Boas non è Mourinho e viene cacciato a inizio marzo, con la squadra in caduta libera ma ancora in corsa su più fronti. Tocca a Roberto, uno serio, uno che piace all’ambiente. E che, come sua natura, resta umile, cercando sia di tranquillizzare che di responsabilizzare i giocatori. Le cose si mettono bene. In Champions elimina Napoli e Barcellona e vola in finale; in FA Cup Tottenham e, in finale, Liverpool, sollevando quel trofeo che aveva vinto da giocatore nel 1997.
Campione d’Europa
Il 19 maggio 2012 c’è la finale di Champions League. Sembra incredibile, ma Roberto Di Matteo dal nulla è arrivato fin lì: è la vita. Il Chelsea affronta il Bayern Monaco, che è già forte di suo e ha un santone come Jupp Heynckes in panchina. E pure il vantaggio di beccare l’anno in cui a ospitare l’ultimo atto è lo stadio di casa, l’Allianz Arena.
I tedeschi sono favoriti, attaccano di più, ma il Chelsea contiene al meglio e la partita non si sblocca fino all’84°, quando Thomas Müller schiaccia in rete di testa. Sembra finita, non lo è. Tempo cinque minuti e su un calcio d’angolo, sempre di testa, Didier Drogba trova il colpo giusto: 1-1. Si va a finire ai rigori, e ancora Drogba segna quello decisivo: il Chelsea di Di Matteo è campione d’Europa.
Roberto è riconfermato per la stagione successiva. Però un 3-0 subito dalla Juventus gli costa il posto. Esonerato in fretta. Avrà altre due esperienze: Schalke 04 e Aston Villa. Entrambe brevi e deludenti. Le cronache non parlano più di lui, e lui non cerca visibilità. Dice che si occupa di affari immobiliari, segue i figli che studiano all’estero e qualche volta commenta partite in Inghilterra. Non ha dimenticato il calcio, vive tutto con equilibrio. E se non è ancora tornato nella mischia, non ne fa un dramma. In fondo, anche se hai vinto una Champions, nella vita non esiste solo il pallone.