Non molti ricordano che Roberto Mancini concluse la sua carriera di calciatore vestendo, per un brevissimo periodo, la maglia del Leicester City. Esattamente quel Leicester che anni fa, con Claudio Ranieri, sbalordì il calcio trionfando a sorpresa in Premier League.
È il gennaio 2001. Il Mancio, allora trentaseienne, ha già appeso gli scarpini al chiodo dopo lo scudetto con la Lazio nel 2000, diventando assistente di Sven Goran Eriksson e studiando da allenatore. Lui, in realtà, è uno che fermo non ci sa stare. Grazie a un contatto con Peter Taylor, tecnico del Leicester, riceve un’offerta per giocare fino a fine stagione con le Foxes, allora squadra di livello non proprio eccelso.
Poco importa: Roberto è uno che sa sempre cosa vuole. Cioè allenare e farlo a modo suo. Poi, il calcio inglese lo affascina. Desidera conoscere quel mondo, imparare la lingua, in futuro farne parte a pieno titolo. E così vola oltremanica ad assaporare quell’ambiente all’avanguardia che sta catturando sempre più le attenzioni degli appassionati italiani.
I sei mesi pattuiti con il Leicester si riducono a uno, perché dopo cinque partite tutt’altro che memorabili Mancini torna in Italia, chiamato dalla Fiorentina. D’ora in avanti sarà Mister Mancini, e nient’altro. Quindi Lazio, Inter, la consacrazione. Ma un pezzo di cuore resta sempre lì, nel posto dove continuano a credere che il football un giorno tornerà a casa.
Roberto Mancini e il rinnovamento del calcio
In Italia gli danno del viziato e del predestinato. Quello che non vuole fare gavetta. Quello che preferisce scegliersi solo situazioni a lui congeniali. Perché in effetti sembra che Mancini, fumantino e impaziente, riesca ogni volta ad avere tutto e subito. Ma Roberto è solo una persona che crede in ciò che fa: vincere attraverso il gioco, esaltando i giocatori di talento.
Ama il bello, l’eleganza, la coralità. Sarà che è nato a Jesi, cittadina antica e ordinata nel cuore delle Marche, luogo natio di Federico II, lo Stupor Mundi che seppe unire potere e cultura, innescando un processo di rinnovamento artistico e culturale. Così Roberto Mancini, molto più del fondamentalista stressante Arrigo Sacchi, si propone come l’artefice di una nuova concezione del calcio italiano, coniugando arte e scienza. Un calcio votato all’attacco e alla ricerca del bel gioco, pur con un occhio sempre rivolto al risultato.
Dopo l’ascesa in biancoceleste e gli scudetti nerazzurri, è il momento di coronare un sogno: allenare in Inghilterra. E vincere, ovviamente. Nel 2012, al Manchester City, firma uno dei finali più incredibili della storia. Un campionato preso per i capelli con due gol a tempo scaduto di Dzeko e Aguero, su assist di Mario Balotelli, che lui aveva fatto esordire all’Inter, così come un certo Leonardo Bonucci. Perché chi ha tecnica e piedi buoni con Mancini trova spazio.
Italia, l’occasione della vita
Anche nella carriera di un allenatore di successo, i momenti difficili prima o poi arrivano. Roberto Mancini li vive al Galatasaray, all’Inter-bis, allo Zenit San Pietroburgo. Ma se tieni duro e resti te stesso, ti può capitare l’occasione della vita. Quella che, anche se hai già scollinato da tempo i cinquant’anni, ti fa radunare le tue forze migliori e raggiungere un equilibrio forse mai avuto prima.
L’occasione è la Nazionale italiana, 14 maggio 2018. Cosa c’è all’orizzonte per Mancini? Ancora l’Inghilterra. Uno stadio che si chiama Wembley, sede della finale degli Europei 2020. Per il Mancio, Wembley è dove ha lasciato un conto in sospeso: la finale di Champions League 1992 persa con la Sampdoria. C’era lui, c’era Vialli, c’era buona parte del suo staff di oggi. Tutti amici da sempre. E con un cerchio da chiudere.
Il CT Mancini sbarca a Coverciano nel momento più buio per l’Italia. E la porta fuori dal baratro nell’unico modo che conosce: restando fedele alle sue idee, perché è questo che dà equilibrio. Continuando a proporre gioco. Non smettendo mai di lavorare e di crederci. Neanche quando viene addirittura rinviato tutto di un anno, e beccandosi pure il Covid. Ma l’obiettivo Inghilterra/Wembley rimane lì, come una stella che guida il cammino. Come è andata a finire lo sappiamo. Roberto Mancini ci ha creduto più di tutti.