Jack Rose, chitarrista di culto per una nicchia di appassionati, ha lavorato incessantemente dal vivo e in studio, incidendo splendide prove per una decina di etichette diverse, con un’urgenza creativa che l’ha portato a produrre come se non ci fosse un domani, quasi a presagire l’infarto che se l’è portato via a soli 38 anni.
Ha fatto parte dei Pelt, un gruppo drone post-rock e parallelamente ha coltivato un percorso indipendente, diventando una figura centrale della recente rinascenza folk. Influenzato da Charley Patton e dai quei chitarristi solitari degli anni ’60 come Robbie Basho e, soprattutto, John Fahey, guarda al folk prewar, rispetta la tradizione dei padri, ma è capace di innovare mescolando roots, blues, raga e hillbilly.
Finger-picking e accordi aperti sull’acustica alternata alla Weissenborn, esplorano le potenzialità dello strumento che nelle sue mani suona come un’intera orchestra. Strati di arpeggio disegnano lunghe e ipnotiche ragnatele che possiedono la forza evocativa dei grandi spazi aperti e la dimensione avvolgente del sogno. I suoni metallici delle corde pizzicate riempiono il silenzio e i confini si dilatano in ambienti di profonda e incontaminata bellezza.
Jack Rose
Kensington Blues (Tequila Sunrise, 2005)